Il linguaggio della musica é universale, ma quello del Requiem di Verdi é il grido dell’anima di fronte alla morte: paradiso e inferno dell’esistenza.
Dolore, rabbia, paura, sgomento, paradiso e inferno, sono tutti nell’esplosione della musica verdiana del #Requiem. Una Messa composta in più fasi e poi rappresentata per commemorare, a un anno dalla sua morte, Alessandro Manzoni, morto nel 1873.
Il progetto iniziale della composizione che, pur collocandosi tra le opere religiose, non ha nulla di liturgico, fu composto per la morte di Gioacchino Rossini. Ma fu poi abbandonato nel 1869 e, solo successivamente, Verdi lo riprese e lo rielaborò in maniera completa in occasione della morte di un altro grande della cultura italiana, Manzoni appunto.
E, quando l’opera venne rappresentata per la prima volta, nel 1874, nella chiesa di S. Marco a Milano, sotto la direzione del maestro #Verdi in persona, il successo fu straordinario.
Il pubblico fu letteralmente trascinato dalla potenza espressiva di questa musica che seppe dare colore e voce alle proprie emozioni, in un crescendo emotivo ineguagliabile.
Parigi, New York, Londra e Vienna furono le nuove tappe della rappresentazione di questa Messa singolare, volta a celebrare il genio e la cultura italiani. E ovunque il successo fu strepitoso.
Il Requiem e le voci dell’anima
Verdi, che non brillava per devozione religiosa, riuscì ad esprimere in questa musica tutto lo smarrimento dell’uomo di fronte alla morte. E prese in prestito dalla liturgia sacra un testo in cui egli, provato da gravi lutti, seppe infondere tutto lo sgomento di chi rimane privo di una persona cara.
Le voci dei cantanti solisti, quindi, hanno un ruolo significativo nell’opera ed esprimono, fondendosi con la potenza della musica, le incertezze della dimensione umana.
L’#anima si confessa in un’alternanza di emozioni e di paure tutte terrene nel giorno del giudizio. E la musica si colora di immagini che richiamano gli affreschi michelangioleschi della Cappella Sistina.
La partecipazione emotiva è viva, vibrante e tocca il vertice nel momento del Dies irae. Qui un’esplosione di strumenti accompagna l’impeto delle voci, mentre anche il divino ascolta la paura e lo sgomento dell’uomo che teme il Giudizio.
La morte diviene vita
Dopo il roboante Dies irae l’opera si conclude con la voce del soprano che, unitamente al coro, in un sussurro che è quasi un gemito invoca questo Dio sconosciuto e lontano.
E il sussurro ” Libera me, libera me”, appena percettibile, diviene una preghiera sommessa.
La morte si trasforma così in una dimensione umana, terrena in cui l’#anima è protagonista assoluta e l’Inferno della vita può essere riscattato dalla speranza di un Paradiso.
#IrmaSaracino