Turandot, l’ultima opera del maestro Giacomo Puccini (1858-1924), genio del melodramma romantico, ci proietta in un tempo indefinito, nel mondo fantastico del lontano oriente ricco di fascino e di mistero.
Come tutte le favole le origini sono antichissime e non ancora scoperte del tutto. Nelle “Mille e un giorno”, ciclo di novelle persiane di Francois Pétit de La Croix (1653-1713), nella 45° giornata, troviamo per la prima volta la favola di “Turandocte”.
Ma dobbiamo arrivare al 1762 per avere la definitiva “Turandot”, fiaba teatrale scritta dal veneziano Carlo Gozzi (1720-1806), tradotta poi da Friedrich Schiller (1759-1805) che ispirò i librettisti Adami e Simoni per il capolavoro pucciniano.
L’idea di comporre un’opera ambientata in oriente, idea per altro non nuova al maestro, gli venne dopo aver ascoltato un carillon che il barone Fassini, console italiano a Pechino, gli aveva portato in dono dalla Cina. Alcuni temi musicali di questo carillon li ritroviamo nella partitura definitiva dell’opera.
I protagonisti
La vicenda si intreccia tra le complesse personalità dei tre protagonisti: la principessa cinese Turandot, il principe tartaro #Calaf e la schiava Liù.
La principessa Turandot
Turandot è bella e gelida, dall’età indefinita, sicuramente molto giovane ma già pronta, per volere del padre imperatore e per una legge arcaica, a quello che è da sempre l’unico destino concesso alla donna: il matrimonio.
Ribelle a questo destino domina e guida gli eventi dall’alto della sua reggia, come è spesso rappresentato nelle innumerevoli edizioni dell’opera, dove, protetta, si sente pura e improfanabile come un Dio.
Schiava di se stessa, sotto il pretesto di vendicare la sua ava Lou-Ling, violentata e uccisa dal “maschio dominatore”, nasconde la sua misandria, ultimo baluardo alla difesa della sua minacciata libertà. La sua crudeltà nel proporre i tre arcani quesiti, che puntualmente portano a morte gli sciagurati principi pretendenti, non spegne la sua sete di vendetta anzi la perpetua incatenandola in una maledizione che ormai è costretta ad incarnare.
Turandot è ossessionata dalla difesa della sua purezza, ma soffocato sotto la cenere del suo orgoglio, nasconde un grande bisogno di #amore. Un bisogno di tornare alla vita e di riconquistarne la gioia ed i colori.
Il trionfo dell’amore
Sarà Calaf che riuscirà, con la sua tenacia e la sua sicurezza, a sciogliere in lei quella gelida cortina di ghiaccio che l’avvolge. Questa radicale metamorfosi della personalità della nostra protagonista è resa magistralmente dalle note del compositore che, nel duetto finale, segnano come un battito del cuore il crescente sentimento d’amore.
Ma, come tutti sanno, #Puccini non terminò l’opera, ma si fermò alla morte di Liù. Fu il compositore Franco Alfano (1875-1954) che, utilizzando gli appunti del maestro, la terminò.
Il famoso duetto finale è dunque opera di Alfano o di #Puccini? Certo è che alcuni studiosi rilevano che l’opera, rimasta incompleta per circa un anno, non fosse stata terminata dal grande maestro non tanto per l’insorgenza della malattia che lo portò a morte, quanto per la mancanza di ispirazione nel rendere in musica questa delicata quanto fondamentale trasformazione.
Calaf
In contrapposizione è #Calaf, giovane principe tartaro, spirito inquieto che vaga sotto mentite spoglie per le terre d’oriente alla ricerca di se stesso.
Forse, annoiato della vita di corte e desideroso di avventura, ha lasciato la sua terra, la sua casa e la sua famiglia, inconsapevole ora della invasione subita dal suo regno da parte del nemico e della fuga del vecchio padre sconfitto e accecato.
Nelle vesti di avventuriero si imbatte in una principessa misteriosa e bella, non si innamora di lei ma dell’impresa ardua che deve affrontare per possederla. Il coraggio, la incoscienza, la irresponsabilità, l’arroganza, tipici dell’immaturità lo inducono per ben tre volte a sottoporsi al rischio della vita.
Indovina i tre quesiti e vince. Rivela il suo nome alla principessa prima dell’alba e vince. Turandot gli dichiara pubblicamente amore e per la terza volta vince. In realtà il giovane guerriero immaturo non ha conquistato una donna ma la sua maturità.
Liù, la vittima
Ma chi realmente è travolta dagli eventi e dai sentimenti è Liù, la vera vittima. Personaggio inventato dai librettisti e fortemente voluto da Puccini: non poteva mancare in una sua opera un’eroina romantica.
Schiava fedele al suo Signore, sconfitto e senza patria, lo accompagna nel suo peregrinare in terre lontane vivendo solo del poetico ricordo di un sorriso dell’uomo che ama incondizionatamente.
Simbolo di bontà e dedizione, è quasi irreale. Ma questa sua apparente fragilità nasconde la vera forza dell’amore. Sarà lei con il suo esempio di fedeltà e sacrifico, tanto da morirne, a fare breccia nel cuore gelido della principessa e a essere quindi artefice della vittoria di Calaf.
Liù, schiava d’amore, muore da vera eroina dell’ottocento donando con la sua rinuncia la felicità ai principi innamorati e forse un po’ indifferenti e insensibili di fronte alla tragedia della vita.
#BrunoMatacchieri